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RICETTE BASILICATA
Ricette Basilicata del mondo in modo semplice e chiaro per tutte coloro che si cimentano in culinaria a preparare piatti prelibati e gustosi. La raccolta di cucina Basilicata più grande mai vista.

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basilicata: ricette ricetta gastronomia cucina basilicata
RICETTE BASILICATA
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INTRODUZIONE CUCINA BASILICATA

La Regione Basilicata è una terra prevalentemente montuosa con poche pianure, tra cui la più estesa è la piana di Metaponto.
I romani chiamavano la regione LUCANIA, termine che deriva dal nome dell'antico popolo dei Lucani (il cui significato si collega a lucus cioè bosco).
Il paesaggio è aspro e rurale, antico e un po' fermo nel tempo, in cui vive una popolazione semplice, accogliente, disponibile e allegra.
La cucina della Basilicata affonda le sue radici nei costumi semplici della sua popolazione, che ha dovuto adattarsi ad una terra non certo ricca di risorse naturali.
Alla base della gastronomia lucana ci sono l'allevamento e l'agricoltura, influenzata dalle tradizioni campane, pugliesi e calabresi.
I cibi sono genuini, hanno un sapore antico che è rimasto quasi immutato nel tempo. Per il condimento viene poco usato il burro mentre domina in ogni piatto l'olio d'oliva.
I salumi prodotti in questa terra sono straordinari e molto apprezzati fin dall'antichità. Verrone narra che i Romani appresero l'arte di preparare gli insaccati proprio dai Lucani. Domina la carne di maiale.
Tradizione e storia si fondono all'interno della cucina lucana creando dei piatti che sono rimasti invariati nel tempo e che vengono realizzati con la stessa maestria del passato.
Altro protagonista della cucina Lucana è sicuramente il peperoncino che viene chiamato in questo territorio in almeno tre modi diavulicchiu, frangisello, cerasella, che viene adoperato per creare dei piatti deliziosi e che in passato era chiamato 'il pranzo del contadino' o del pastore, proprio perchè costituiva l'elemento principale della loro dieta povera.
La Basilicata è una regione dell'Italia meridionale, compresa tra la Puglia, la Campania, la Calabria e bagnata per breve tratto dal Tirreno (tra Sapri e Scalea, con il golfo di Policastro) e dal mar Ionio (tra Novi Siri e Metaponto, con il golfo di Taranto). Il nome sembra derivare dal nome con cui si indicava il funzionario bizantino basilikòs che amministrava nel II secolo parte dell'antica Lucania; il nome Lucania ha sostituito quello di Basilicata dal dicembre 1932 fino a che nella Costituzione si è ritornati al nome medievale.
Nella parte occidentale la Basilicata comprende alcuni elevati massicci, incavati da conche, fiancheggiati da contrafforti che degradano verso lo Ionio. A Nord e al centro, i rilievi non superano duemila metri (monte Volturino, m. 1856); a Sud più imponente è il Sirino (m. 2005) e soprattutto il Pollino (m. 2271), che costituisce una barriera tra Basilicata e Calabria.
Nella parte settentrionale s'innalza isolato il Vulture (m. 1330), vulcano spento, abbellito da due laghetti craterici. Frequenti sono in Basilicata i terremoti.
Nella vegetazione si possono distinguere, per quanto riguarda l'altimetria, quattro zone: la macchia mediterranea (fino a 400 metri: specie lentisco, mortella ecc.), il bosco submontano di querce e di castagni (400-1000 metri), il bosco montano di faggi e di conifere (queste ultime specie nel Pollino: 1000-2000 metri), e il pascolo alpestre.
La coltura più estesa è quella del frumento seguita dall'avena, dalle patate, dall'orzo e dal mais, coltivati per lo più in modo estensivo. Anche il lino (per seme) e il tabacco danno buoni raccolti. La vite si estende su diciottomila ettari e produce oltre mezzo milione di ettolitri di vino. L'olivo si coltiva in collina, gli agrumi sulle spiagge ioniche. Estesa dovunque la frutticoltura. La pastorizia è un'occupazione tradizionale di una parte della popolazione.

CUCINA BASILICATA

La Basilicata (un tempo denominata Lucania) è una terra aspra, dura, ricca di sole, ma soltanto di sole: una terra misteriosa dove ancora oggi la vita scorre scandita secondo ritmi antichi e dove si attende sempre la soluzione di molti problemi socio-economici.
La sua cucina è povera e si avvale soprattutto dei prodotti della terra e delle carni derivanti dagli allevamenti degli ovini (e pertanto anche di latticini) e del maiale, mentre manca quasi ovunque il pesce.
È terra di pastori e di contadini, questa: del resto, sul Tirreno la regione è bagnata dal mare per un tratto di costa brevissimo - pochi chilometri - ma stupendo per le rocce strapiombanti, il mare dal fondo blu e compatto, le insenature aggraziate, i paesini alti sui pendii, i soffici arenili. Il centro più importante di questa costa è Maratea, località turistica sorta quasi dal nulla e diventata celebre in pochi anni. Per quanto riguarda alimentazione e cucina dobbiamo precisare che il maiale è stato elemento fondamentale dell'alimentazione perché lo si può allevare ovunque e soprattutto perché di esso si utilizza tutto, persino il sangue, col quale si prepara il famoso dolce «sanguinaccio». Una volta l'uccisione dell'animale era regolata, come un vero e proprio rito, da una cerimonia che diventava una specie di festa cruenta, legata a leggende, usanze e tradizioni particolari. Il primo colpo di coltello alla gola della vittima era affidato al capofamiglia. Le interiora erano oggetto di attenzione speciale perché da esse si potevano trarre buoni o cattivi auspici per tutto l'anno.
La festa aveva il suo culmine a tavola, dove quel giorno si imbandiva un pranzo eccezionalmente ricco, così come avveniva nelle ricorrenze religiose e in occasioni di matrimoni e nascite.
Dei vari prodotti che si ricavano dal maiale, il più celebre, fin dai tempi della Roma classica, è la salsiccia. Il nome di lucanica oggi tanto diffuso nel nord Italia nasce con ogni verosimiglianza proprio in questa terra mediato dalla denominazione Lucania. La prova è data da una delle molte eruditissime opere di Marco Terenzio Marrone, che ne descrisse le caratteristiche aggiungendo che "i nostri soldati", cioè i soldati di Roma, "hanno appreso dai lucani il modo di prepararla". Non si trattava però di quella salsiccia lunga e sottile che con lo stesso nome si produce oggi in vari luoghi dell'Italia Settentrionale, ma di una generica salsiccia molto aromatizzata, simile a quella di cui Apicio fornì la ricetta: "trita pepe, comino, peverella, ruta, prezzemolo, spezie dolci, coccole di lauro e mescola poi il tutto insieme a salsa di Apicio, sale, molto grasso e semi di finocchio: insaccalo in un budello lungo e sospendilo al fumo...".
La lucanica, dunque, aromatizzata con pepe nero e peperoncino, dal gusto deciso e aggressivo, si mangia fresca, arrostita o fritta, oppure la si fa seccare e affumicare, o ancora la si mette sott'olio per conservarla. Il maiale lucano è in genere magro, anzi magrissimo, perché pascola sulle montagne insieme a pecore e agnelli: se ne ricava un prosciutto di consistenza asciutta e nervosa, magnificamente saporito e piccante, salsicce a pasta finemente macinata, soppressate, capocolli e la tipica «pezzenta», detta così perché era il salame dei più poveri: composto dagli scarti della macellazione (polmone, fegato, nervi), che vengono tritati minutamente, è aromatizzato con dose generose di pepe e di aglio. La carne di manzo e di vitello manca nella cucina tradizionale ed è tuttora piuttosto scarsa; si sostituisce perciò con quella di pecora, agnello, montone e anche (dopo trattamento particolare) di capra. Una ricetta antica per agnello e castrato è la «pigneti»: i pezzi di carne, insieme a patate, pomodoro, cipolla, peperoncino, formaggio pecorino, salame sbriciolato vengono messi in un'anfora di terracotta che viene chiusa e sigillata con la creta e poi messa in forno caldissimo: il calore viene via via diminuito fino alla completa cottura. Ma degli ovini si mangiano - qui come in tutto il Sud - soprattutto le interiora: si chiamano in Lucania «gnumaredd» come in Puglia e sono arrotolate negli intestini e nella rete dell'animale. La cottura di preferenza è allo spiedo o alla brace: è cibo rude, robusto, pieno di carattere.
Altro alimento fondamentale nella gastronomia lucana è il pane. Esistono, nella tradizione dei fornai lucani, alcune preparazioni a base di farina di grano tenero. È il caso, per esempio, delle cosiddette «friselle» o «frisedde», ma la semola di grano duro è la base pressoché assoluta di tutte le preparazioni in materia sia di pane sia di pasta. La grande maggioranza dei primi piatti della cucina regionale ha come protagonista questo antichissimo cereale, che qui si coltiva in abbondanza dai tempi più lontani.
Le «friselle» sono fette di pane composte di farina di tipo "0", lievito, sale e acqua, sottoposte a un processo di biscottatura in forno: vengono usate, imbevute di acqua e aceto, come base di ricche insalate estive con pomodori, cipolle e altri ortaggi irrorati con l'olio della regione, o ricevono sul fondo del piatto una zuppa di verdure, un minestrone o altre preparazioni similari. Sono da ricordare anche le «scricchiarelle», di piccolo formato (quattro centimetri per quattro), nella cui pasta entrano, con la farina e il lievito, piccole quantità d'olio: il loro requisito è di essere croccanti.
Ricordiamo inoltre il pane di Matera che, con quello di Altamura, è il pane più straordinario che si produca nel Meridione italiano. È fatto di sola semola, in forme di grandi dimensioni, in grado di mantenersi morbido e saporito per alcuni giorni. Era tradizione, un tempo, che ogni massaia preparasse in casa la propria forma di pane e la portasse poi a cuocere dal fornaio. Per riconoscerla, veniva impresso sulla pasta un contrassegno distintivo, solitamente realizzato in legno scolpito con i simboli o le iniziali della famiglia. Tali "timbri da pane" sono ormai quasi scomparsi dall'uso comune ed è più facile trovarli nei musei dedicati alla civiltà contadina.
Nella versione originale il pane di Matera è cotto in forno di pietra con legna di quercia. Le forme raggiungono e a volte superano i cinque chilogrammi di peso.
Presenza immancabile della tavola lucana è il peperoncino, che assume nomi maliziosi come «frangisello», «cerasella», «pupon», «diavolicchio». Viene usato in dosi massicce, così da risultare - specialmente a palati non avvezzi - fin troppo aggressivo e da sovrastare qualunque altro sapore. Ma perché si consuma in dosi così abbondanti questo vivificante prodotto della terra e del sole? Un proverbio locale dice: «lu paprini e lu pupon ie' lu pranz r' lu cafun», che vuol dire:«il peperone dolce e quello piccante sono il pranzo del contadino». Il quale, bisogna dirlo, non ha molto di più - dalla natura della sua terra - da mettere in tavola. Una volta, per combattere malattie come la malaria, tutt'altro che infrequenti, il peperoncino si mangiava abitualmente e l'uso è rimasto. Bisogna sottolineare poi che il peperoncino dà un sapore forte e deciso a qualunque piatto, anche il più scipito, e chi si abitua a sapori vigorosi non si accontenta più di quelli più delicati. Infine, c'è un altro proverbio lucano secondo il quale l'uomo deve essere «bue di giorno, toro di notte»: evidentemente, il peperoncino era ritenuto un ... valido aiuto nelle ore notturne e così il «diavolicchio» è ritenuto il re di questa tavola umile e insieme infuocata. Lo si ritrova, con semi di finocchio, sale e grasso di maiale nella «sugna piccante», un condimento caratteristico, molto diffuso, che si conserva in vasi di vetro e si mangia anche come accompagnamento del pane casereccio. Un tempo era cibo quotidiano dei pastori: oggi l'uso non è tramontato.
Siamo nel Sud e la pasta fatta a mano è d'obbligo. «Strascinari», orecchiette, lasagne, e le cosiddette «manate» sono le più caratteristiche. Si preparano con tecniche antiche e l'uso di speciali arnesi come le "cavarole", nel caso degli «strascinari», che sono piccoli taglieri in legno zigrinati, fabbricati dai pastori durante le lunghe ore di solitudine nei pascoli.
Il «minuich» è uno degli esempi più antichi di pasta. L'impasto, di farina di semola e acqua bollente, si taglia a pezzetti che vengono avvolti attorno a un bastoncino di saggina o a un apposito strumento a sezione quadrata. Con le dita si spiana la pasta fino a ottenere corti spaghettini bucati che devono asciugare. Vengono conditi con salsa di pomodoro, cime di rapa lessate e pecorino grattugiato. Anche le «lagane» sono un'antichissima forma di pasta casalinga che ha mantenuto nel nome il suo legame con il tempo più lontano. Lagane erano infatti chiamate nel mondo greco e latino le lasagne ed esistono in proposito abbondanti citazioni di autori classici. La preparazione base della pasta si avvale esclusivamente di semola di grano duro, acqua e sale. Tirata la sfoglia si tagliano le lagane nel formato che si preferisce, oppure si ottengono rettangoli piuttosto stretti che vengono avvolti attorno a un bastoncino sottile di legno o a un filo di ferro. Lasciati seccare all'aria si trasformano così in «minuiddi», una sorta di rudimentali pennette. La caratteristica di questo tipo di pasta è che, una volta cotta e scolata, mantiene perfettamente la sua consistenza.
Il condimento più usato per la pastasciutta è il ragù con gli «'ntruppicc» (intoppi), cioè pezzetti di carne ovina o anche di vitello tagliata col coltello, mai tritata. Sopra il sugo si mette il «forte», cioè il solito peperoncino fritto nell'olio, infine si spolvera con formaggio pecorino o «ricotta forte» prima di servire, odorosa e vivida, la robusta pastasciutta. La ricotta forte è una specialità della cucina di Matera che si ritrova anche in Puglia: la ricotta di latte di pecora viene manipolata una volta al giorno per almeno trenta giorni aggiungendo via via piccole quantità di sale, in modo che diventi sempre più piccante. Quando è pronta, si spalma sul pane o si usa per condire pizze, focacce, zuppe.
Tra i dolci, più tradizionale è la «scarcedda», tipica del periodo pasquale: è a base di pasta frolla farcita di ricotta e contiene al suo interno, nascosto nel ripieno, un uovo sodo sgusciato. Chi trova nella sua fetta di «scarcedda» l'uovo (o un pezzo d'uovo) avrà un anno fortunato.
Questa regione ha sempre praticato l'arte di conservare gli alimenti. Un'arte connessa alla necessità: le vie rare e impervie limitavano gravemente la possibilità di approvvigionarsi, le asperità climatiche inducevano a raccogliere provviste a lungo termine, quante ne servivano per superare l'inverno. Dove e quando era possibile la dispensa si riempiva di salumi, prosciutti, soppressate e salsicce, oltre che di formaggi stagionati di produzione domestica. L'autoconsumo era il modo di vivere di una società umile e autarchica, sostanzialmente esclusa dai traffici dei mercanti e da ogni speranza di progredire con il commercio.
Povera e chiusa quanto si vuole, la società contadina ha lasciato alle generazioni successive un patrimonio di grande entità, fatto di ammaestramenti antichi, di ricette tuttora in uso, di abitudini culinarie legate alle più antiche e tradizionali credenze. Certamente la mancanza di corti e dei relativi banchetti affidati ai grandi cuochi ha ridotto il panorama dell'arte della cucina, così come la povertà ha mantenuto vivo il recupero di tutto ciò che viene offerto dalla locale produzione.

CUCINA TIPICA BASILICATA
PRODOTTI TIPICI DELLA BASILICATA

Terra ricca di sapori e tradizioni si caratterizza per una conformazione geografica che determina una cucina sostanziosa e molto varia; tra prodotti spiccano i formaggi dalla antica tradizione, i cereali da cui viene prodotta una pasta famosa in tutto il mondo ma anche vini e insaccati.

La Zona collinare
La zona collinare della Basilicata corrisponde all'incirca alla provincia di Matera, solcata dai corsi medi e inferiori dei fiumi ionici lucani.
Nei suoi estremi, nord ed est, il territorio presenta già le forme tabulari e la natura calcareo-carsica delle Murge pugliesi. In tutta la zona si è sviluppata l'attività agricola-pastorale che ha determinato l'alimentazione e la cucina di questa terra. Questa si basa appunto su ciò che si produce e per ragioni geografiche, storiche e culturali ha nei secoli elaborato un metodo molto simile a quello pugliese.
Specialità caratterizzante della cucina di Matera è la «ricotta forte» (che si trova anche in Puglia). La ricotta di latte di pecora viene manipolata una volta al giorno per almeno trenta giorni aggiungendo via via piccole quantità di sale, in modo che diventi sempre più piccante. Quando è pronta, si spalma sul pane o si usa per condire pizze, focacce, zuppe. Questa ricotta unisce al sapore forte e determinato una tendenza naturale alla cremosità. Ma i derivati del latte ovino e caprino sono molti anche in questa zona della Basilicata nella quale i formaggi compaiono sulla tavola sia come antipasti che come dessert, sempre accompagnati da un pane squisito: eccezionale è quello definito di Matera, fatto di sola semola, in forme di grandi dimensioni, in grado di mantenersi morbido e saporito per alcuni giorni.
Gli ortaggi - grazie alla natura del terreno - sono molto apprezzabili e vengono usati spesso per condire la pasta.
Ricordiamo fra i vari primi le «lagane e fagioli» che un'antica ricetta suggerisce di preparare con i seguenti ingredienti: cinquecento grammi di fagioli freschi, due spicchi d'aglio, peperoncino rosso in polvere, strutto, seicento grammi di farina di grano duro e sale, procedendo nel seguente modo: si sgranano i fagioli e si lessano in acqua salata. Si mette la farina sulla spianatoia, vi si versano un pizzico di sale e acqua tiepida e si lavora una pasta liscia di giusta consistenza. Con il matterello si fa una sfoglia sottile, la si lascia asciugare e la si taglia a tagliatelle larghe. Si lessano queste tagliatelle in acqua bollente salata e si scolano al dente. Si versa la pasta in una terrina, si uniscono i fagioli scolati e lo strutto già messo sul fuoco in una padellina e rosolato con aglio e peperoncino. Si mescola e si serve.
Ma gli ortaggi offrono la possibilità di preparazioni autonome; ricordiamo come esempio la «ciaudedda» e la «ciammotta».
Per la prima si usano due chili di fave fresche, un chilo di patate, cinquecento grammi di cipolle, duecento grammi di pancetta, dieci carciofi teneri, olio d'oliva e sale e si prepara così: si sgusciano le fave, si pelano e si tagliano a fette le patate, si mondano i carciofi togliendo le foglie esterne e le punte e si tagliano in quattro spicchi. Si affettano quindi le cipolle e si mettono in una casseruola con la pancetta battuta e mezzo bicchiere di olio. Si soffrigge a fuoco vivace; quando le cipolle saranno imbiondite, si uniscono le fave, i carciofi e le patate. Si sala, si mescola, si copre e si cuoce a fuoco lento unendo, se necessario, un po' d'acqua calda salata. Si serve calda.
La «ciammotta» richiede i seguenti ingredienti: duecentocinquanta grammi di patate, duecentocinquanta grammi di peperoni, duecentocinquanta grammi di melanzane, duecento grammi di pomodori, uno spicchio d'aglio, olio d'oliva e sale e si prepara nel seguente modo: si lavano e si affettano le melanzane, si mettono in un piatto con il sale e si lascia scolare l'acqua, poi si lavano e si asciugano. Si tagliano le patate a tocchetti, si pelano i pomodori, si tolgono i semi e si fanno a pezzetti. Si lavano i peperoni, si asciugano e si tagliano a listerelle. Si mette al fuoco una padella con abbondante olio e quando sarà ben caldo vi si friggono le melanzane. A parte si friggono le patate e i peperoni, si riunisce tutto in un tegame, si aggiungono i pomodori e l'aglio, si sala, si mescola e si cuoce per un'ora a fuoco basso.
Superbe sono le «melanzane al forno» che richiedono un chilo di melanzane, centocinquanta grammi di olive nere, cento grammi di acciughe salate, cinquanta grammi di capperi, due pomodori maturi, un panino raffermo, olio d'oliva, origano, prezzemolo, aglio e sale e si realizzano secondo un'antica ricetta che diamo qui di seguito: si lavano le melanzane, si tagliano a metà e si fanno delle incisioni nella polpa interna, si salano e si lasciano scolare l'acqua per un'ora. Si snocciolano le olive e si trita il prezzemolo, si lavano, si diliscano e si tagliano a pezzetti le acciughe. Si toglie la mollica al panino, la si sbriciola e la si mette in una zuppiera con le olive, il prezzemolo, l'aglio tritato, i capperi, le acciughe e un pizzico di origano, amalgamando bene il tutto. Si lavano e si asciugano le melanzane, si mettono in una teglia con la parte aperta in alto e si riempie l'incavo con l'impasto. Si ricoprono con filetti di pomodoro, si bagnano abbondantemente con olio e si mettono in forno già caldo, lasciando cuocere per circa un'ora.
Come in Puglia, anche in questa zona si può iniziare un pranzo con «purè di fave con cicoria», un piatto tanto semplice quanto gustoso.
Le carni sono riservate soprattutto ai grandi pranzi e sono di maiale, di agnello, di capretto e di pollo, cucinate alla brace o in tegame con un sugo molto piccante.
Anche in questa terra, come in molta parte del Meridione, l'arte dolciaria non presenta prodotti originali; bisogna però precisare che non mancano i dolci anche se risentono della cultura napoletana, di quella pugliese e anche di quella siciliana e sono legati alle festività religiose: così la «cuccìa» che si mangia il giorno della commemorazione dei defunti e che si fa con grano perlato prima lessato e poi condito con vino cotto, noci tritate, cioccolata e acini di melograno. Così i «mustazzuoli» che sono tipici delle ricorrenze pasquali, fatti impastando uova, farina e olio; vengono prima lessati brevemente, poi cucinati al forno e ricoperti con una glassa a base di zucchero.
La «focaccia cannellata» è invece un dolce della tradizione familiare comunemente esteso alla produzione giornaliera di pasticcerie e panifici. L'impasto di farina, uova, latte, zucchero e lievito viene profumato alla cannella, quindi disteso in una teglia e messo a cuocere in forno. A cottura avvenuta si taglia a losanghe; morbido e gradevole, è uso intingerlo nel vino cotto.
Nell'insieme questa cucina si caratterizza per la ricchezza dei prodotti forniti dalla fertilità della terra e per un particolare attaccamento della gente lucana alle più antiche tradizioni: e questo è un grande vanto; possiamo infatti affermare che oggi i cibi della povertà sono la ricchezza di tutti, il rifugio più sicuro contro l'omogeneizzazione delle abitudini e dei sapori.

La zona montuosa
La zona montuosa della Basilicata appartenente all'Appennino Lucano corrisponde all'incirca alla provincia di Potenza, città capoluogo situata a oltre ottocento metri sul livello del mare sul versante nord dell'alta valle del fiume Basento.
Tutta la regione, ma particolarmente la parte montana, è ancora oggi una terra misteriosa e segreta, povera e dimenticata, dove la vita scorre secondo ritmi antichi.
Data la sua conformazione geografica, la Basilicata non ha nel suo patrimonio gastronomico tradizionale ricette di pesce. Ma per un brevissimo tratto stupendo per le rocce strapiombanti dalla montagna si passa al mare dal blu fondo e compatto, le insenature aggraziate, i paesini alti sui pendii, i soffici arenili. Il centro più importante di questa costa è Maratea, centro turistico sviluppatosi in anni relativamente recenti in cui si possono gustare piatti di pesce che si caratterizzano per l'abbondante presenza del peperoncino, dell'aglio, per i sapori forti tipici di questa terra.
La fondamentale fonte alimentare di questa zona è però costituita soprattutto dal maiale di cui - data la povertà delle risorse - si utilizza tutto. Una volta l'uccisione dell'animale era regolata, come un vero e proprio rito, da una cerimonia che diventava una specie di festa cruenta, legata a leggende, usanze e credenze particolari. Il primo colpo di coltello alla gola della vittima era affidato al capofamiglia. Le interiora erano oggetto di attenzione speciale perché da esse si potevano trarre buoni o cattivi auspici per tutto l'anno. La festa aveva il suo culmine a tavola, dove quel giorno si imbandiva un pranzo eccezionalmente ricco, così come nelle ricorrenze religiose e in occasioni di matrimoni e nascite. Il maiale lucano è in genere magro, anzi magrissimo, perché pascola sulle montagne insieme a pecore e agnelli: se ne ricava un prosciutto di consistenza asciutta e nervosa, magnificamente saporito e piccante; salsicce a pasta finemente macinata, soppressate, capocolli e la tipica «pezzenta», detta così perché era il salame dei più poveri: composto dagli scarti della macellazione (polmone, fegato, nervi), che vengono tritati minutamente, è aromatizzato con dosi generose di pepe e di aglio. La produzione di salsiccia e di soppressata, che costituisce una delle caratteristiche peculiari della norcineria lucana, è affiancata dalla lavorazione di parti intere dell'animale, che vengono trattate con il metodo della salagione e della stagionatura secondo sistemi in uso un po' ovunque. Notevole è il capocollo, ma può essere un'autentica sorpresa assaggiare un prosciutto crudo lucano, tenuto a stagionare nella zona del Vulture e reso unico nel sapore dall'impiego generoso del peperoncino utilizzato insieme con il sale e altre spezie.
Altre carni di questa zona - dove manca quasi completamente quella di manzo e di vitello - sono quelle di pecora, agnello, montone e anche (dopo trattamenti particolari) di capra. Una ricetta antica per agnello e castrato è la «pigneti»: i pezzi di carne, insieme a patate, pomodoro, cipolla, peperoncino, formaggio pecorino, salame sbriciolato, vengono messi in un'anfora di terracotta che viene chiusa e sigillata con la creta e poi messa in forno caldissimo: il calore viene via via diminuito fino alla completa cottura.
Per quanto riguarda i primi piatti, ricordiamo il «minuich» che è uno degli esempi più antichi di pasta. L'impasto, di farina di semola e acqua bollente, si taglia a pezzetti che vengono avvolti attorno a un bastoncino di saggina o a un apposito strumento a sezione quadrata. Con le dita si spiana la pasta fino a ottenere corti spaghettini bucati che devono asciugare e che vengono conditi con salsa di pomodoro, cime di rapa lessate e pecorino grattugiato. Anche le «lagane» sono un'antichissima forma di pasta casalinga che ha mantenuto anche nel nome il suo legame con il tempo più lontano. Lagane erano infatti chiamate nel mondo greco e latino le lasagne ed esistono in proposito abbondanti citazioni di autori classici. La preparazione base della pasta si avvale esclusivamente di semola di grano duro, acqua e sale. Tirata la sfoglia si tagliano le lagane nel formato che si preferisce, oppure si ottengono rettangoli piuttosto stretti che vengono avvolti attorno a un bastoncino sottile di legno o a un filo di ferro. Lasciati seccare all'aria si trasformano così in «minuiddi», una sorta di rudimentali pennette. La caratteristica di questo tipo di pasta è che, una volta cotta e scolata, mantiene perfettamente la sua consistenza. Il condimento più usato per la pastasciutta è il ragù con gli «'ntruppicc» (intoppi), cioè pezzetti di carne ovina o di maiale o talvolta anche di vitello tagliata col coltello, mai tritata. Sopra il sugo si mette il «forte», cioè il peperoncino fritto nell'olio, infine si spolvera con formaggio pecorino.
Fagioli, ceci e patate cucinate in forno e in tegame sono i contorni più diffusi della zona, conditi per lo più con la sugna piccante, grasso di maiale insaporito con peperoncino e semi di finocchio selvatico, un condimento caratteristico, molto diffuso, che si conserva in vasi di vetro e si mangia anche come accompagnamento del pane casereccio. Un tempo era cibo quotidiano dei pastori: l'uso non è tramontato.
Non esiste praticamente diversità fra i dolci tradizionali della Basilicata e quelli delle regioni confinanti. Ovunque la caratteristica principale di quasi tutti i dolci è il collegamento con determinate ricorrenze soprattutto religiose, a conferma del fatto che ci si concedeva cibi più ricchi soltanto in occasioni importanti. Ecco perciò un dolce come la «scarcedda», un dolce pasquale che ricorda la «pastiera» napoletana: l'involucro di pasta frolla è farcito con ricotta zuccherata: di tipico la «scarcedda» ha un uovo sodo nascosto nel ripieno. Trovare l'uovo è considerato presagio di fortuna. Ricordiamo inoltre la «paparotta», raro e tradizionale dolce tipico della zona di Avigliano, in provincia di Potenza. Si tratta di una vera e propria polenta ottenuta cucinando in acqua con zucchero un misto di farina di grano tenero e di semola, con aggiunta di mosto d'uva bollito. Il risultato è un dolce che può essere, a seconda della densità voluta, un budino da mangiare con il cucchiaio o una torta più soda da tagliare a fette.

I prodotti che rendono gustosa questa cucina, a partire proprio dai formaggi sono:

Formaggi:
caciocavallo podalico: formaggio ottenuto da latte di bovini;
cacio-ricotta: è una speciale ricotta riconoscibile dal sapore più pungente e da una più dura rispetto alla tradizione consistenza;
pecorino di Filiano: formaggio prodotto con latte ovicaprino dal gusto intenso e saporito;
canestrato di Moliterno: si tratta di un formaggio di pasta dura dall’inconfondibile colore crema e gusto piccante ottenuto da latte ovicaprino;
manteca: formaggio tipico ottenuto dal classico caciocavallo con in aggiunta all’interno di una parte di burro che rende il sapore più delicato.

Salumi:
soppressata: si tratta del tipico e tradizionale salume locale, un insaccato composto da carne di maiale aromatizzato con pepe nero;
lucanica: salume piccante che deve questa sua qualità agli ingredienti che lo compongono quali finocchio e peperoncino;
pezzenta: salsiccia composta da un mix di carni tritate che sono agnello, maiale e vitello aromatizzate con aglio, spezie e peperoncino, ideale per la preparazione di sughi.

Ortaggi:
peperoni di Senise I.g.p.: tipico ortaggio coltivato in gran parte della regione dalla forma varia, se ne trovano a uncino, allungati e appuntiti.

Legumi:
fagioli di Sarconi I.g.p.: legume coltivato in due specie differenti, quelli borlotti e i cannellini.

Altro:
olio extravergine di oliva lucano D.o.p..

Vini D.O.C.:
aglianico del vulture: vino rosso dal sapore asciutto e profumo gradevole, particolarmente indicato per piatti a base di carne e in special modo con carni selvatiche.

STORIA DELLA CUCINA BASILICATA

La Basilicata (un tempo denominata Lucania) è una terra aspra, dura, ricca di sole, ma soltanto di sole: una terra misteriosa dove ancora oggi la vita scorre scandita secondo ritmi antichi e dove si attende sempre la soluzione di molti problemi socio-economici.
La sua cucina è povera e si avvale soprattutto dei prodotti della terra e delle carni derivanti dagli allevamenti degli ovini (e pertanto anche di latticini) e del maiale, mentre manca quasi ovunque il pesce.
È terra di pastori e di contadini, questa: del resto, sul Tirreno la regione è bagnata dal mare per un tratto di costa brevissimo - pochi chilometri - ma stupendo per le rocce strapiombanti, il mare dal fondo blu e compatto, le insenature aggraziate, i paesini alti sui pendii, i soffici arenili. Il centro più importante di questa costa è Maratea, località turistica sorta quasi dal nulla e diventata celebre in pochi anni.
Per quanto riguarda alimentazione e cucina dobbiamo precisare che il maiale è stato elemento fondamentale dell'alimentazione perché lo si può allevare ovunque e soprattutto perché di esso si utilizza tutto, persino il sangue, col quale si prepara il famoso dolce «sanguinaccio». Una volta l'uccisione dell'animale era regolata, come un vero e proprio rito, da una cerimonia che diventava una specie di festa cruenta, legata a leggende, usanze e tradizioni particolari. Il primo colpo di coltello alla gola della vittima era affidato al capofamiglia. Le interiora erano oggetto di attenzione speciale perché da esse si potevano trarre buoni o cattivi auspici per tutto l'anno.
La festa aveva il suo culmine a tavola, dove quel giorno si imbandiva un pranzo eccezionalmente ricco, così come avveniva nelle ricorrenze religiose e in occasioni di matrimoni e nascite.
Dei vari prodotti che si ricavano dal maiale, il più celebre, fin dai tempi della Roma classica, è la salsiccia. Il nome di lucanica oggi tanto diffuso nel nord Italia nasce con ogni verosimiglianza proprio in questa terra mediato dalla denominazione Lucania. La prova è data da una delle molte eruditissime opere di Marco Terenzio Marrone, che ne descrisse le caratteristiche aggiungendo che "i nostri soldati", cioè i soldati di Roma, "hanno appreso dai lucani il modo di prepararla". Non si trattava però di quella salsiccia lunga e sottile che con lo stesso nome si produce oggi in vari luoghi dell'Italia Settentrionale, ma di una generica salsiccia molto aromatizzata, simile a quella di cui Apicio fornì la ricetta: "trita pepe, comino, peverella, ruta, prezzemolo, spezie dolci, coccole di lauro e mescola poi il tutto insieme a salsa di Apicio, sale, molto grasso e semi di finocchio: insaccalo in un budello lungo e sospendilo al fumo...".
La lucanica, dunque, aromatizzata con pepe nero e peperoncino, dal gusto deciso e aggressivo, si mangia fresca, arrostita o fritta, oppure la si fa seccare e affumicare, o ancora la si mette sott'olio per conservarla.
Il maiale lucano è in genere magro, anzi magrissimo, perché pascola sulle montagne insieme a pecore e agnelli: se ne ricava un prosciutto di consistenza asciutta e nervosa, magnificamente saporito e piccante, salsicce a pasta finemente macinata, soppressate, capocolli e la tipica «pezzenta», detta così perché era il salame dei più poveri: composto dagli scarti della macellazione (polmone, fegato, nervi), che vengono tritati minutamente, è aromatizzato con dose generose di pepe e di aglio. La carne di manzo e di vitello manca nella cucina tradizionale ed è tuttora piuttosto scarsa; si sostituisce perciò con quella di pecora, agnello, montone e anche (dopo trattamento particolare) di capra. Una ricetta antica per agnello e castrato è la «pigneti»: i pezzi di carne, insieme a patate, pomodoro, cipolla, peperoncino, formaggio pecorino, salame sbriciolato vengono messi in un'anfora di terracotta che viene chiusa e sigillata con la creta e poi messa in forno caldissimo: il calore viene via via diminuito fino alla completa cottura. Ma degli ovini si mangiano - qui come in tutto il Sud - soprattutto le interiora: si chiamano in Lucania «gnumaredd» come in Puglia e sono arrotolate negli intestini e nella rete dell'animale. La cottura di preferenza è allo spiedo o alla brace: è cibo rude, robusto, pieno di carattere.
Altro alimento fondamentale nella gastronomia lucana è il pane. Esistono, nella tradizione dei fornai lucani, alcune preparazioni a base di farina di grano tenero. È il caso, per esempio, delle cosiddette «friselle» o «frisedde», ma la semola di grano duro è la base pressoché assoluta di tutte le preparazioni in materia sia di pane sia di pasta. La grande maggioranza dei primi piatti della cucina regionale ha come protagonista questo antichissimo cereale, che qui si coltiva in abbondanza dai tempi più lontani.
Le «friselle» sono fette di pane composte di farina di tipo "0", lievito, sale e acqua, sottoposte a un processo di biscottatura in forno: vengono usate, imbevute di acqua e aceto, come base di ricche insalate estive con pomodori, cipolle e altri ortaggi irrorati con l'olio della regione, o ricevono sul fondo del piatto una zuppa di verdure, un minestrone o altre preparazioni similari. Sono da ricordare anche le «scricchiarelle», di piccolo formato (quattro centimetri per quattro), nella cui pasta entrano, con la farina e il lievito, piccole quantità d'olio: il loro requisito è di essere croccanti.
Ricordiamo inoltre il pane di Matera che, con quello di Altamura, è il pane più straordinario che si produca nel Meridione italiano. È fatto di sola semola, in forme di grandi dimensioni, in grado di mantenersi morbido e saporito per alcuni giorni. Era tradizione, un tempo, che ogni massaia preparasse in casa la propria forma di pane e la portasse poi a cuocere dal fornaio. Per riconoscerla, veniva impresso sulla pasta un contrassegno distintivo, solitamente realizzato in legno scolpito con i simboli o le iniziali della famiglia. Tali "timbri da pane" sono ormai quasi scomparsi dall'uso comune ed è più facile trovarli nei musei dedicati alla civiltà contadina.
Nella versione originale il pane di Matera è cotto in forno di pietra con legna di quercia. Le forme raggiungono e a volte superano i cinque chilogrammi di peso.
Presenza immancabile della tavola lucana è il peperoncino, che assume nomi maliziosi come «frangisello», «cerasella», «pupon», «diavolicchio». Viene usato in dosi massicce, così da risultare - specialmente a palati non avvezzi - fin troppo aggressivo e da sovrastare qualunque altro sapore. Ma perché si consuma in dosi così abbondanti questo vivificante prodotto della terra e del sole? Un proverbio locale dice: «lu paprini e lu pupon ie' lu pranz r' lu cafun», che vuol dire:«il peperone dolce e quello piccante sono il pranzo del contadino». Il quale, bisogna dirlo, non ha molto di più - dalla natura della sua terra - da mettere in tavola. Una volta, per combattere malattie come la malaria, tutt'altro che infrequenti, il peperoncino si mangiava abitualmente e l'uso è rimasto. Bisogna sottolineare poi che il peperoncino dà un sapore forte e deciso a qualunque piatto, anche il più scipito, e chi si abitua a sapori vigorosi non si accontenta più di quelli più delicati. Infine, c'è un altro proverbio lucano secondo il quale l'uomo deve essere «bue di giorno, toro di notte»: evidentemente, il peperoncino era ritenuto un ... valido aiuto nelle ore notturne e così il «diavolicchio» è ritenuto il re di questa tavola umile e insieme infuocata. Lo si ritrova, con semi di finocchio, sale e grasso di maiale nella «sugna piccante», un condimento caratteristico, molto diffuso, che si conserva in vasi di vetro e si mangia anche come accompagnamento del pane casereccio. Un tempo era cibo quotidiano dei pastori: oggi l'uso non è tramontato.
Siamo nel Sud e la pasta fatta a mano è d'obbligo. «Strascinari», orecchiette, lasagne, e le cosiddette «manate» sono le più caratteristiche. Si preparano con tecniche antiche e l'uso di speciali arnesi come le "cavarole", nel caso degli «strascinari», che sono piccoli taglieri in legno zigrinati, fabbricati dai pastori durante le lunghe ore di solitudine nei pascoli.
Il «minuich» è uno degli esempi più antichi di pasta. L'impasto, di farina di semola e acqua bollente, si taglia a pezzetti che vengono avvolti attorno a un bastoncino di saggina o a un apposito strumento a sezione quadrata. Con le dita si spiana la pasta fino a ottenere corti spaghettini bucati che devono asciugare. Vengono conditi con salsa di pomodoro, cime di rapa lessate e pecorino grattugiato.
Anche le «lagane» sono un'antichissima forma di pasta casalinga che ha mantenuto nel nome il suo legame con il tempo più lontano. Lagane erano infatti chiamate nel mondo greco e latino le lasagne ed esistono in proposito abbondanti citazioni di autori classici. La preparazione base della pasta si avvale esclusivamente di semola di grano duro, acqua e sale. Tirata la sfoglia si tagliano le lagane nel formato che si preferisce, oppure si ottengono rettangoli piuttosto stretti che vengono avvolti attorno a un bastoncino sottile di legno o a un filo di ferro. Lasciati seccare all'aria si trasformano così in «minuiddi», una sorta di rudimentali pennette. La caratteristica di questo tipo di pasta è che, una volta cotta e scolata, mantiene perfettamente la sua consistenza.
Il condimento più usato per la pastasciutta è il ragù con gli «'ntruppicc» (intoppi), cioè pezzetti di carne ovina o anche di vitello tagliata col coltello, mai tritata. Sopra il sugo si mette il «forte», cioè il solito peperoncino fritto nell'olio, infine si spolvera con formaggio pecorino o «ricotta forte» prima di servire, odorosa e vivida, la robusta pastasciutta. La ricotta forte è una specialità della cucina di Matera che si ritrova anche in Puglia: la ricotta di latte di pecora viene manipolata una volta al giorno per almeno trenta giorni aggiungendo via via piccole quantità di sale, in modo che diventi sempre più piccante. Quando è pronta, si spalma sul pane o si usa per condire pizze, focacce, zuppe.
Tra i dolci, più tradizionale è la «scarcedda», tipica del periodo pasquale: è a base di pasta frolla farcita di ricotta e contiene al suo interno, nascosto nel ripieno, un uovo sodo sgusciato. Chi trova nella sua fetta di «scarcedda» l'uovo (o un pezzo d'uovo) avrà un anno fortunato.
Questa regione ha sempre praticato l'arte di conservare gli alimenti. Un'arte connessa alla necessità: le vie rare e impervie limitavano gravemente la possibilità di approvvigionarsi, le asperità climatiche inducevano a raccogliere provviste a lungo termine, quante ne servivano per superare l'inverno. Dove e quando era possibile la dispensa si riempiva di salumi, prosciutti, soppressate e salsicce, oltre che di formaggi stagionati di produzione domestica. L'autoconsumo era il modo di vivere di una società umile e autarchica, sostanzialmente esclusa dai traffici dei mercanti e da ogni speranza di progredire con il commercio.
Povera e chiusa quanto si vuole, la società contadina ha lasciato alle generazioni successive un patrimonio di grande entità, fatto di ammaestramenti antichi, di ricette tuttora in uso, di abitudini culinarie legate alle più antiche e tradizionali credenze. Certamente la mancanza di corti e dei relativi banchetti affidati ai grandi cuochi ha ridotto il panorama dell'arte della cucina, così come la povertà ha mantenuto vivo il recupero di tutto ciò che viene offerto dalla locale produzione.
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